Orrida, ma doverosa premessa: è difficile, quasi improprio, cercare di scrivere una recensione ad
autori come Landolfi o Michele Mari. Il rischio che si corre è
quello di banalizzare o, all'opposto, di scriverne con esorbitante
entusiasmo, senza una via di mezzo, che sia critica oggettiva.
Del resto
scrivere recensioni su un blog, poco più che appuntare riflessioni
su un diario personale che sai leggeranno un po' tutti, è qualcosa
che con la critica letteraria vera e propria non ha nulla da
spartire. Il bello/non bello. Le stelline e i rating sono valutazioni
del tutto personali, che spesso non tengono conto di tante,
tantissime variabili. Di elementi che fanno di un testo un prodotto
valido o meno.
Possiamo
parlare di stile, di forma. Di attinenza al genere, di credibilità
di un personaggio, di costruzione di dialoghi e di coerenza nella
trama. Possiamo e dobbiamo farlo. Ma sempre, sempre, l'oggettività
sarà una creatura sfuggente, perché alla fine dovremo dare un
giudizio lapidario; un mi è piaciuto/non mi è piaciuto. E per tanti
pollici alti ve ne saranno di versi. E quello che sarà stato
giudicato un piccolo capolavoro da alcuni verrà bollato come boiata
galattica da altri. È universale. È anche umano. Il gusto è valore
squisitamente soggettivo.
Che quasi
non val la pena sottolinearlo, né scriverne.
Ma è
giusto dirlo, almeno una volta.
Parliamo
di Michele Mari, allora, con tutti i timori del caso.
Parliamo
del primo suo libro che ho letto, finendolo pochi giorni fa. Libro
del quale ho sentito il dovere/bisogno di scriverne il più in fretta
possibile, perché poi le sensazioni coi giorni si offuscano, le idee
raggranellate in lettura si aggrumano in un pensiero-matassa che è
difficile tornare a districare.
Come io
sia arrivata a Mari è storia di coincidenze: ne ho letto in una
intervista (pubblicata sull'Urania Horror 12) per poi leggere una sua
intervista (questa). E qui confesso che quasi mai provo simpatia per
gli autori che incontro e, del resto, anch'io non sono il massimo
della gradevolezza. Pure, quell'intervista mi ha fatta sorridere. È
un'intervista sincera, autentica, genuina. Leggendone ho voluto leggerlo. Dall'uomo sono arrivata allo scrittore.
E qui, ci
addentriamo nella foresta lessicale di Mari.
Ogni
racconto contenuto in Euridice
aveva un cane
è un boschetto di parole; è un vivaio di storie che ramificano e
crescono e si ingolfano di foglie-lemma, con radici contorte e
bitorzolute che affondano in profondità nella terra grassa del
linguaggio. Ci sono gineprai di vocaboli sconosciuti, c'è il
dialetto perfettamente trascritto; ci sono rovi che pungolano il
lettore e lo costringono spesso a fermarsi, ad armarsi di
vocabolario, a cercare una parola, spiccandola dal ramo, cogliendone
il suo significato e il suo significante.
La trama
è solo una parte nei racconti di Mari; un tronco liscio che lui
lavora e addobba, ispessisce e intarsia, finché non viene nascosta
dall'edera enorme e fitta delle parole.
Vi
è un
ritorno esasperato e confortante del senso di morte,
quella consapevolezza della caducità che viene contrastata dal
ricorso al ricordo, al feticismo degli oggetti. Noi siamo e presto
non esisteremo, pure qualcosa ci sopravviverà, qualcosa che forse
abbiamo dimenticato ma che è stata, per qualche istante, la fonte
suprema della nostra felicità. E allora servono custodi, creature
che sentono con maggiore sensibilità di altri il peso di un'esistenza che,
pure non richiesta, ci costringe costantemente a riflettere su quanto
perderemo una volta che la morte ci avrà fatto suoi. Custodi di
palloni da calcio, idoli preziosi di un'infanzia fatta di giorni
diafani come fantasmi; anziane che vivono in una casupola con
giardino, circondate da oggetti che sono stati prodotti in un passato
già remoto, accompagnate dalla ripetizione speculare di un cane che,
pur diverso, è sempre lo stesso.
" «[...]Già: chissà perché in ogni cosa riesco solo a vedere la morte?»
«Forse perché sei morto anche tu» rispose, e con le dita mi sfiorò una spalla. Al suo tocco lieve, mi sfarinai tutto. " [da Forse perché in Euridice aveva un cane, di Michele Mari, Einaudi, 2004, p. 127]
Quelli di
Mari sono personaggi che, in più occasioni, emergono dal passato dell'autore e che spesso, pur nel pubblico, sono soli perché
soli si nasce e si muore e soli si passa la maggior parte della vita,
rinchiusi in un corpo che manovriamo come piloti in esilio. E alla
fine la socialità non è che un modo per cercare di dimenticare che
non esiste una comunione di anime, che ciascuno è prigioniero di se
stesso.
E proprio
per questa consapevolezza, credo, Mari riesce a gestire con abilità
non soltanto la parola ma anche l'ironia, una lama sottile che
trapassa il lettore, lo coglie di sorpresa; inaspettata quanto
assurda muta in grotteschi racconti davvero terrorizzanti. Il terrore
è una delle sensazioni che si prova spesso, leggendo questo
libretto. Mari costruisce storie che terminano in maniera
raccapricciante, e ancora è merito della sua abilità come esteta
della parola. Basta la iena ossuta che struscia il pelo attorno alla
gamba di un comandante; o il dialogo finale di mostri che succhiano
midollo di bambino; o il racconto ossessivo, cantilenante, di incubi
via via orripilanti per sentire il brivido di orrore percorrere ogni
fibra del proprio corpo.
E
adesso, sinceramente, non so come concludere.
Non posso invitarvi
alla lettura di Euridice
aveva in cane
perché rischierei di vedervi con i picconi sotto casa, ma certo
posso suggerirvi di tentare. Un racconto, uno solo. Soffermatevi su
quelle parole, gustatene ogni lirismo, perversione, evoluzione.
Rileggetelo ancora. È l'immersione quella che vi si chiede. È
affondare corpo e mente nel bacino del linguaggio. Con fatica,
trattenendo il fiato, scavando, strappando.
È un
leggere in apnea.
È
perdersi in un tipo di fantastico che è, al tempo stesso, immanenza
e trascendenza di mondi affatto distanti ma come sovrapposti. La vita
e la morte, il futuro e il passato, i vivi e i morti. Tutti
schiacciati in un presente che è sempre lo stesso. In un mondo che
ruota e che sembra immobile. In volti che invecchiano di minuto in
minuto e che lo specchio ci mostra identici al passato, come lastre fotografiche
dimenticate sul tavolo di una cucina abbandonata da tempo.
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Oh beh, io, più che come invito, prendo questa tua riflessione come imperativo -mio- a leggere Mari e anche con discreta urgenza! :O
RispondiEliminaPrimo libo letto di Michele Mari. Ricordo che, incuriosita da qualche commento di amiche, nottetempo andai a leggermi l'incipit dell'ebook (il racconto dei palloni scomparsi oltre il muro), comprai il libro e attaccai a leggerlo immediatamente. Da lì in poi di Michele Mari ho letto altro (ancora non tutto per fortuna) ed è sempre stata una gioia.
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