Scrittori dimenticati. JEREMIAS GOTTHELF e IL RAGNO NERO


Se è vero che nomen omen, a leggere un nome come quello di Jeremias Gotthelf uno non può fare a meno di immaginarsi un pastore protestante, che se ne va in giro ad apostolare e a cercare di redimere cuori imbastarditi per riportarli nella fucina di Dio. E, in effetti, lo scrittore in questione, che quel nome se lo scelse e che è considerato un po' il Manzoni della narrativa svizzera, in vita fu proprio un uomo di Dio. Pastore anomalo, Gotthelf non visse però una vita di agi e adagi; a causa delle sue idee politiche, che potremmo definire “para-socialiste”, si scontrò spesso e volentieri con i suoi superiori, finendo per vivere in un isolamento che perdurerà fino alla morte.
Ma su questo ci torneremo.

Nato a Murten nel Friburgo, nel 1797, Albert Bitzius, questo il vero nome di Gotthelf, vive un'infanzia tra campi e fattorie, passando gran parte del suo tempo in mezzo ai contadini. Le storie e le leggende del mondo rurale, così come lo stile di vita dei braccianti e i loro modi di dire diventeranno poi elemento fondamentale per i suoi romanzi e novelle.
Raggiunta l'adolescenza, Gotthelf viene inviato a Berna perché frequenti il ginnasio. Non si distingue granché, né mostra particolari doti per la letteratura e, anzi, uno dei suoi professori ritiene la sua scrittura “da bestia”, tanto da arrivare a informare la madre del ragazzo perché gli insegni a tenere la penna come Dio comanda. La donna, dal canto suo, dà alle preoccupazioni del professore il giusto peso perché, con intuito materno, ritiene improbabile che da grande suo figlio voglia fare lo scrittore.
Uscito dal ginnasio, Gotthelf, seguendo un destino già segnato, si iscrive a un corso di teologia finché, nel 1820, diventa vicario del padre e torna a casa per lavorare con lui.


La collaborazione si mostra da subito molto difficile, sia perché suo padre non lo perde di vista un attimo, sia perché Gotthelf preferisce alla cura spirituale delle anime quella culturale dei giovani così, a pochi mesi dall'inizio del vicariato si trasferisce a Gottinga per portare a termine i suoi studi. Da lì si sposta molto, visitando tra le altre Berlino, Dresda, Weimar, Lipsia e Monaco. Rientra a Untzenstorf un anno dopo, in tempo per vedere il padre morire.

Mancandogli l'esperienza necessaria, non gli viene permesso di subentrare nella parrocchia paterna e viene inviato invece a Herzogenbuchsee, sempre come vicario. Vi resterà per cinque anni.
La parrocchia, non piccola, comincia quasi subito a mormorare su quel giovane vicario che di notte scappa dalla chiesa per andarsene per osterie. Lo vedono giocare a carte, bere, partecipare alla vita dei mercanti e dei contadini. L'ultima goccia che ne provoca l'allontanamento è la ferma decisione di difendere un maestro contro il quale si era sollevata la comunità. Nel 1829 viene spostato a Berna e poi, nel '31, approda a Lützelflüh, nell'Emmental, dove rimarrà fino alla morte.
L'Emmental è lo scenario privilegiato delle sue opere, nonché il luogo che fa da sfondo a Die Schwarze Spinne (Il ragno nero) una tra le sue novelle più celebri e quella dove l'orrore si collega al timor di Dio e alle lusinghe diaboliche.

Tra il 1828 e il 1831 Gotthelf collabora anche con un giornale, il Berner Volksfreund, scrivendo articoli che spaziano dalla politica all'economia alla pedagogia. Gotthelf era fortemente critico verso il liberismo e l'industrializzazione, sostenendo al contrario l'idea di una società fondata sulla comunione di spirito e beni, una fratellanza che avrebbe dovuto accomunare fede e attività umane.
Nel 1832 ottiene finalmente la nomina a parroco e nel 1833 si sposa con la figlia del professore di teologia della facoltà di Berna, Wynigen Henriette Zender. Avranno in tutto tre figli.

Nel 1835 Gotthelf ottiene forse la nomina più ambita, sicuramente quella più affine al suo spirito pedagogico, e viene nominato Commissario scolastico per le diciotto scuole municipali dell'Emmental. Da subito si batte per l'istruzione pubblica, oltre a deprecare la pratica dell'affidamento che, sotto la sua cappa di carità cristiana, nascondeva invece una vera e propria compravendita di piccoli servi sfruttati e tenuti in un'indigenza simile, se non peggiore, di quella patita nella famiglia d'origine.
La sua testardaggine lo porterà a un isolamento intellettuale che ne metterà a dura prova lo spirito finché, dopo dieci anni, verrà esautorato dal suo incarico per divergenze politiche con il governo.

Più o meno è in questo periodo che Gotthelf comincia a scrivere, disattendendo i vaticini di sua madre. Lo pseudonimo che adotta sarà tanto calzante da diventare il suo secondo nome, quello con il quale, ancora oggi, la critica lo studia e cita.
Jeremias Gotthelf è innanzitutto il nome del protagonista del suo primo romanzo: Der Bauern-Spiegel. Il primo di una serie di opere scritte con uno stile che richiama, in arcaismi e forme dialettali, il linguaggio povero e contadino della gente semplice.

Nel 1851 Gotthelf si ammala di polmonite. I tentativi di cura non sortiscono alcun effetto e lo scrittore muore tre anni dopo, il 22 ottobre 1854, per embolia polmonare provocata dalla malattia.


IL RAGNO NERO – Patti col diavolo e martiri redentori

Quella che Gotthelf mette in scena nella sua opera forse più nota è una classica storia a cornice dove, nello sfondo di una festa per un battesimo, durante la pausa tra una portata e l'altra, il vecchio patriarca si siede sotto un albero e, sollecitato dai suoi ospiti, racconta la leggenda che sta dietro (e dentro) uno strano e brutto asse di legno che deturpa la facciata della casa da poco ricostruita.
È in quell'asse che si annida il ragno nero della storia, creatura maligna e letale, velenosa di un veleno che scaturisce direttamente dai laboratori dell'Inferno. Una bestia che si alimenta dell'odio, dei desideri e dell'oscurità che albergano in ciascun essere umano, e che sembrano farsi più intensi più si è vicini alla creatura maledetta.

Si tratta di un piccolo punto oscuro, una macchiolina in un bicchiere di latte, che non può essere sconfitto ma tenuto a bada, sì, con atteggiamenti di carità e amore, di fratellanza e bontà.

La prima parte della novella è una lunga, e a suo modo antropologicamente interessante, narrazione dei preparativi del battesimo di un bambino che non vedremo mai. Come in un adagio, Gotthelf esplora e racconta le cerimonie contadine dell'usanza religiosa: e i piccoli accorgimenti del vestiario, e il cibo cotto in abbondanza, e lo zafferano, che sembra fosse la spezia che non poteva assolutamente mancare a un banchetto per battesimo nella Svizzera dell'Ottocento. Gotthelf si prende il suo tempo, con uno stile che, letteralmente, se ne frega del lettore. Indugia, apre e chiude cassetti, ispeziona tavoli, mostra merletti. E poi, inaspettatamente, affonda in analisi psicologiche talmente sottili che portano chi legge a immedesimarsi con le stesse angosce, con gli stessi timori dei personaggi narrati.
L'introspezione psicologica è uno degli elementi più sorprendenti del romanzo. Sia quando parla dei singoli che quando descrive gli atteggiamenti della folla, Gotthelf dimostra di essere un attento osservatore dell'uomo.

Pur nella sciatteria di uno stile che, ripeto, non ha proprio alcun riguardo per il lettore, Gotthelf inanella una serie di ritratti psicologici davvero notevoli che, da soli, valgono la “fatica” della lettura.


Dalla curiosità di una madrina parte il racconto del nonno, il cuore della storia, un racconto che risale indietro nel tempo, fino a circa tre secoli prima, quando i contadini erano sempre contadini ma un po' più poveri, perché gravati dalle corvées, e i signori di allora erano stronzi come i signori di adesso, ricchi e indifferenti alle sofferenze di chi non era loro pari.

Quello del ragno nero è un racconto nel quale Gotthelf pesca a piene mani nelle leggende popolari, nei racconti di diavoli e di piatti demoniaci che venivano stipulati da contadini sbruffoni che alla fine riuscivano sempre, in qualche modo, a cavarsela.

Come in quelle storie, anche in questo caso il patto, che prevede l'aiuto del diavolo in cambio di un bambino non battezzato, viene stipulato da una donna “straniera” che è convinta di poter avere la meglio sul signore degli inferi. E, in effetti, all'inizio le cose sembrano dare ragione ai contadini. Ma, mentre i bambini che nascono vengono battezzati prima che il diavolo possa metterci sopra le zampe, la donna scopre con orrore che la guancia sulla quale ha ricevuto il bacio a suggello del patto comincia a gonfiarsi. Una macchiolina nera che prende vita sotto il suo corpo e le fa soffrire le pene dell'inferno, le brucia sangue e ossa, la strazia senza darle tregua. È l'embrione del ragno nero, una creatura di puro male che sfrutta il corpo di Cristina come incubatrice, fino a farle partorire centinaia di piccoli letali aracnidi che riempiono, delle loro brulicanti zampette e dei loro peli urticanti, le terre e le stalle, gettando i contadini nell'orrore e nella fame.
"e perciò li rincorreva, spinta da un affanno infernale cercando di convincerli con parole inequivocabili a compiere il sacrificio. Ma gli altri se ne curavano ben poco; ciò che tormentava Cristina, a loro non faceva male; ciò ch'ella soffriva, se l'era meritato, secondo il loro modo di vedere" [Jeremias Gotthelf, Il ragno nero, traduzione di M. Mila, Adelphi, 1996, p. 78]

Ma il diavolo non è ancora soddisfatto e così, al termine dell'ultimo battesimo, è Cristina stessa ad essere trasformata nel ragno nero vero e proprio, e a dare inizio alla mattanza. Il ragno nero è una bestia lugubre e velenosissima, inarrestabile e sfuggente. Veloce, semina morte ovunque, indifferente a lance e corazze, finché non sarà sconfitto dal sacrificio di una madre.
era una moria quale mai s'era sentita descrivere, e il morire era la cosa più spaventosa che mai si fosse provata; e più terribile ancora della morte era l'indicibile paura del ragno, di quel ragno ch'era dappertutto e in nessun luogo, che improvvisamente ti fissava negli occhi versandovi la morte quando più t'illudevi d'essere al sicuro” [Jeremias Gotthelf, Il ragno nero, traduzione di M. Mila, Adelphi, 1996, p. 104]

Al primo racconto del nonno se ne aggiunge un secondo, quando il ragno torna, qualche decennio dopo, perché aizzato dai comportamenti sempre più bestiali dei nuovi contadini. Anche in questo caso, solo un sacrificio riporterà le cose al punto di partenza. E, nel frattempo, Gotthelf avrà potuto assemblare una storia fantastica, con scoiattoli boscaioli, e morti crudeli che non risparmiano nulla e nessuno; una storia di puro terrore strisciante, con una tra le migliori rappresentazioni del ragno come scaturigine di fobia che abbia letto fin'ora, e di puntuali e, forse, involontarie analisi psicologiche e sociologiche che non si negano una certa ironia di fondo.

Di punto in bianco era passata a tutti la superbia e l'alterigia, giudicavano questi peccati degni del più profondo abisso d'inferno e non avrebbero creduto nemmeno a Dio, se questi avesse detto loro che non molti giorni prima essi stessi ne erano così vergognosamente pervasi” [Jeremias Gotthelf, Il ragno nero, traduzione di M. Mila, Adelphi, 1996, p. 134]

Tutto il racconto è intriso di morale cristiana, e non c'è da stupirsene, considerato il vissuto di Gotthelf. Del resto, la morale cristiana è uno degli elementi fondamentali perché il racconto funzioni; Gotthelf non lascia scelta ai contadini: se vogliono salvarsi, il patto con il diavolo è l'unica strada percorribile. Ma, dice anche lo scrittore, non è detto che, una volta stretto il patto, il diavolo debba avere la meglio.



Così come il ragno non può essere ammazzato con le armi, sostiene Gotthelf, il male non può essere sconfitto con altro male ma con l'amore. È l'amore, che sublima in sacrificio, l'arma che permette alla madre di imprigionare il ragno. Sono la coesione sociale, la collaborazione, la carità e il rispetto reciproco a tenerlo imprigionato, a fare la differenza tra una comunità in crisi e ridotta a risse e stupri e una comunità in cui anche chi non ha nulla non morirà di fame per questo.

È questo, non esplicito ma leggibile tra le righe, l'ideale politico di Gotthelf, pur mescolato alla patetica cristiana e che è, poi, una delle leggi non scritte dell'etica contadina: l'idea che il mondo non debba necessariamente andare a puttane perché tanto ciascuno bada al proprio ombelico e solo i furbi vanno avanti, ma che il ragno, questa metafora dell'egoismo umano, pur presente e insopprimibile, può essere tenuto a bada purché si cerchi nella fratellanza e nella socializzazione dei beni la via alternativa all'accumulo compulsivo e alla chiusura nei confronti dell'altro.

Dal racconto, nel 1983 è stato tratto un film, Die Schwarze Spinne, per la regia di Mark Rissi.

Se poi siete interessati ad approfondire la figura del ragno nella narrativa e nel cinema fantastico, ne ho casualmente scritto per Altrisogni, QUI.


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