L'UOMO NELLA MACCHINA* - J. D. BERESFORD


Lo shock aveva alterato la mia sensibilità. Sapevo di essermi ferito in qualche modo il braccio destro, ma non avevo capito che l'omero si fosse spezzato. Il mio primo impulso fu quello di rassicurare mia moglie. Ero immensamente euforico per essere sfuggito alla morte. Mi tirai su a sedere e gridai; e tentai di sollevare il braccio per richiamarla.

Lei dovette fare una lunga deviazione per raggiungere il fondo del dirupo, e nel corso di quei dieci minuti, fui pressoché insensibile al dolore. Ero intorpidito e ancora pervaso da quel senso di esaltazione. Una stilla di pensiero mi attraversò con chiarezza la mente. L'avevo scampata per miracolo. Ero precipitato sulle rocce da un'altezza di sessanta piedi, e non ero né morto né prossimo alla morte. Ero fiero della mia avventura e della mia immunità.
E quando mia moglie mi raggiunse, cominciai a parlare con acuto, vivo entusiasmo. Volevo mostrarle subito che non ero ferito gravemente.
“Ma il tuo braccio è spezzato”, disse lei.

Lo guardai stupidamente e di nuovo provai a sollevarlo. Ero seccato perché non riuscivo a muoverlo. La leva si era spezzata, e i muscoli non avevano presa. Questi ultimi non avevano che un compito, che però dipendeva dalla rigidità di quella leva. Guardai a quell'inutile braccio come a qualcosa del tutto disgiunto da me: lo vidi come un insieme puramente meccanico di parti.

E proprio mentre prendevo coscienza della frattura, il braccio cominciò a bruciare come per un fuoco incandescente. Rimasi senza fiato a quell'improvviso dolore, eppure un qualche meccanismo di controllo interno sospirò di sollievo. Ero vagamente consapevole che il dolore era più tollerabile di quel torpore, di quel senso di separazione…

Il medico più vicino abitava a cinque miglia di distanza. Sarebbe trascorsa più di un'ora prima che potesse raggiungerci. Mi costrinsi a tornare a casa. E mia moglie, che per un periodo era stata caposala al St. Andrew's Hospital, mi iniettò una forte dose di morfina…

Scivolai lontano dal dolore e dall'angoscia, e da tutte le opprimenti prospettive della realtà, in maniera così dolce e serena che non ricordo alcun incidente nel passaggio dalla mia camera da letto alla Grande Sala della mia visione. Il passato mi fu strappato via dalla forza della droga; e non fui più in grado di controllare l'esperienza che stavo vivendo basandomi sul vecchio spirito d'osservazione. Lo stupore era stato rimosso dalla mia mente affinché questa potesse essere ricostruita dai rudimenti di un nuovo sapere.

Non fui, per esempio, sorpreso dall'indescrivibile immensità della Grande Sala; né dalla strana apparizione della macchina che era in funzione a poca distanza; né dal fatto che mi accompagnassi a uno sconosciuto con il quale ero, apparentemente, nei termini di una ragionevole intimità.
 
“Quella macchina mi incuriosisce”, dissi.
Ci avvicinammo di qualche passo.
“Che cosa la fa funzionare?”, domandai.
“L'uomo al suo interno,” rispose il mio compagno.
Accettai la spiegazione senza sollevare obiezioni. L'uomo non era visibile, ma la sua esistenza, da qualche parte nel complesso cuore della macchina, era una argomentazione perfettamente naturale.
“Sembra una faccenda complicata”, dissi.
“Oh! Molto!” replicò il mio compagno con noncuranza, e poi aggiunse come per un ripensamento: “Certo, ora la capiamo molto meglio che nel passato. I macchinisti possono eseguire riparazioni davvero magnifiche su di essa, al giorno d'oggi.”
 
Ce ne stavamo andando quando fui attraversato da un nuovo pensiero. “Voglio dire”, dissi. “Quel tipo là dentro non esce mai?”
Il mio compagno sbadigliò, e mugugnò qualcosa a proposito del fatto che non si era mai interessato molto di meccanica.
Provai un'improvvisa irritazione nei suoi confronti. Volevo catturare la sua attenzione, insistere per ottenere una risposta alle mie domande; ma lui stava guardando astrattamente nel vuoto. Ebbi l'assurda impressione che fosse molte miglia lontano; che avrei dovuto intraprendere un viaggio lungo e penoso prima che potessi farmi ascoltare da lui…

Mi ritrovai a rivolgermi alla macchina.
“Non vuoi uscire fuori”, stavo dicendo; e l'accento che posi su quell'importante parola sembrò implicare qualche precedente, dimenticata conversazione.
“Perché dovrei?” fu la risposta che ricevetti.
Un senso di profonda tristezza mi travolse. Capii con rammarico che non avrei potuto aspettarmi la verità da quel complicato meccanismo. L'uomo all'interno era talmente coinvolto in quel terribile sistema di leve e freni. Sia la mia domanda che la sua risposta erano affiorate, distorte e alterate dalle milioni di ostruzioni attraverso le quali avevano dovuto stillare. Lo stesso uomo, invisibile e intangibile, era così tagliato fuori; così disperatamente distante.

Mi domandai: e se uno avesse preso a picchiare con forza all'interno della sua ingegnosa macchina, qualcuno lo avrebbe trovato? E se invece con infinita pazienza e delicatezza uno si fosse messo a tagliare e sondare…?
Udii una voce incalzante chiamarmi. “Ne verrai fuori?” disse.
Una mano mi si era stretta attorno al braccio; e mentre venivo sollevato in alto, quella si irrigidì finché non mi serrò come una manetta.

Ebbi la terrificante premonizione che stessi per essere infilato a forza in una macchina; rinchiuso, nascosto, tagliato fuori da ogni libertà e spontaneità.
Ero atterrito e furioso allo stesso tempo. Presi a spiegare con furia che la cosa era ingiusta, crudele, totalmente intollerabile. Cercai di divincolarmi; ma ero impotente così trattenuto per un braccio, sospeso a mezz'aria. E la presa su di me si faceva sempre più salda, finché il dolore non fu insopportabile.
 
Urlai con tutta la mia forza e udii la mia propria voce guaire flebilmente giù nelle immensità della Grande Sala.
Lontano un'altra voce annunciò in un sussurro. “Verrà, anche lui”, disse.
Desiderai con tutta la mia anima combattere contro quell'affermazione, ma ero estenuato dalla foga della mia lotta impotente e dall'estrema sofferenza di quella mano serrata. Vidi un massa montante di oscurità e seppi che lì era situato l'ingresso della prigione.

Poi il mio spirito mi abbandonò, e precipitai orribilmente attraverso la tenebra, giù nel profondo, nascosto cuore della macchina.
Di lì a poco, osai sbirciare attraverso due piccole finestre oscurate.
“Credo abbia ripreso conoscenza”, annunciò, dal lato opposto del letto, la voce sommessa di mia moglie. 

[* titolo originale “The man in the machine” tratto da Nineteen Impressions, J. D. Beresford 1918, traduzione di Federica Leonardi]