A
volte uno dice: il destino. Mentre scrivo questa recensione, infatti,
Netflix annuncia di aver messo in cantiere la produzione di una
serie, suddivisa in due stagioni, tratta proprio da The
haunting of Hill House.
A capo del progetto ci sarà Mike Flanagan, già regista e autore di
Oculus, Il terrore del silenzio e Ouija.
E
allora tocca proprio parlare di questo romanzo, il
mio primo Shirley Jackson, terminato
mentre mi riprendevo dalla pasquetta.
Come
Malpertuis,
L'incubo
di Hill House [tit.
or. The Haunting of Hill House - 1959], tradotto in Italia anche con
il titolo La
casa degli invasati (per questo vezzo tutto nostro di dover dare trenta titoli diversi a
un romanzo e incasinare i lettori con le edizioni), fa parte del mio
personale tour delle case infestate.
Un
tour che si sta dimostrando profittevole sotto molteplici aspetti,
devo dire.
Hill
House è un modellino in scala di una psicosi;
il romanzo della Jackson è un'opera che si sviluppa come un'onda: da un inizio lento, per quanto narrativamente incisivo,
esplode in un aggrovigliarsi di emozioni, suoni, deliri e orrori e
poi torna, nel paragrafo finale, a quella stessa quiete dell'esordio,
quando ormai tutto è concluso, gli ospiti vanno via e Hill House rimane, monolite della
disperazione, fissa al centro delle colline che la circondano e la
tengono a distanza.
Che Hill
House sia una dimora “cattiva” e dalla quale stare alla larga la
Jackson ce lo dice sin dall'inizio, con un incipit saldo come una
pietra di fondazione. Non ci irretisce, non fa nulla per convincerci
a entrare. Ci dice: state per varcare la soglia di un incubo.
“Hill
House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa
intorno al buio; si ergeva così da ottant'anni e avrebbe potuto
continuare per altri ottanta.” [L'incubo di Hill House, Shirley
Jackson, trad. Monica Pareschi, Adelphi, 2016, p. 9]
Questo
incipit è una folgorazione e ha ragione Stephen King, che alla
Jackson rende omaggio in più di una sua opera, quando in Danse
Macabre scrive: “Io credo ci siano pochi, forse non ve ne sono
affatto, brani descrittivi così eleganti nel linguaggio inglese;
parole che trascendono le parole, parole che costituiscono un totale
ben superiore alla somma delle parti”.
Ora, io
non ho letto il romanzo in lingua, ma la stessa impressione la si
ricava affrontando l'ottima traduzione di Monica Pareschi.
“Dentro,
i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i
pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio
si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e
qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.” [L'incubo
di Hill House, Shirley Jackson, trad. Monica Pareschi, Adelphi, 2016
p. 9]
Bastano
poche parole, e di Hill House sappiamo già tutto. Di più: bastano
poche parole e il terrore è già dato. Nessuno, dopo aver letto
questo inizio, accetterebbe di entrare in quella villa.
Eppure,
nonostante l'avvertimento, qualcuno decide di varcare l'imponente
soglia di Hill House. Si tratta di un uomo, un antropologo, il
professore Montague che, affascinato dalla negatività che la villa
trasuda, decide di condurvi un esperimento. Un esperimento che con
l'antropologia non ha nulla a che vedere perché Montague, che ha
sposato una “sensitiva”, è affascinato dagli ESP, le percezioni extrasensoriali.
Così, durante le vacanze estive Montague affitta la villa e vi
invita degli sconosciuti perché gli facciano da assistenti,
recuperando i loro nomi dagli archivi degli istituti di
parapsicologia.
È così
che vengono ingaggiate Theodora detta Theo e Eleanor “Nell”
Vance, mentre Luke Sanderson viene cooptato a Hill House dalla zia,
che della villa è la proprietaria, perché il nipote metta un po' di
giudizio e si eviti la prigione. A questi si aggiungeranno Mrs.
Dudley, la signora Montague e Arthur, elementi minori che
contribuiranno alla rovina totale della “povera scialba Nell”.
Dei
quattro, Eleanor è la vera protagonista; è su di lei che la Jackson
si concentra, è lei che la casa vuole e chiama. Vissuta per undici
anni al capezzale della madre invalida, Eleanor ha trentadue anni e
nessun posto dove andare. Vive ospitata dalla sorella, che si mostra
un alter ego della madre: egoista e indifferente, alimentata da quel
guizzo di cattiveria che a volte plasma i rapporti tra sorelle.
Nella
costruzione dei personaggi la Jackson dimostra ulteriormente la
propria abilità come narratore. Sia che si tratti di figure minori,
poco più che figuranti, sia che si tratti dei protagonisti, la
Jackson delinea in maniera incisiva le diverse personalità, dà loro
forma e sostanza. Li rende vivi e reali, trasformandoli da personaggi
a persone. Ed è proprio per questo, probabilmente, che la reazione
del lettore nei loro confronti è tanto accesa. Per tutto il romanzo
ho mal sopportato Eleanor, pur riconoscendo l'importanza di una
simile caratterizzazione ai fini della storia. Se non mi fosse
apparsa tanto vera, non avrei provato verso di lei lo stesso
astio, unito al desiderio di offrirle aiuto.
“Pace,
pensò Eleanor, realisticamente; quello che voglio in questo momento
è pace, un angolo tranquillo dove distendermi a pensare, un angolo
tranquillo tra i fiori per poter sognare e raccontarmi storie
dolcissime”. [L'incubo di Hill House, Shirley Jackson, trad. Monica
Pareschi, Adelphi, 2016 p. 184]
Per
Eleanor la lettera del professor Montague è un'epifania: qualcuno la
vuole, vuole proprio lei. Al rifiuto, all'ottusa indifferenza della
famiglia si contrappone il desiderio espresso da uno sconosciuto; uno
sconosciuto che le sta aprendo le porte di una villa, dove lei avrà
diritto a una stanza tutta per sé e non a una squallida brandina in
un angolo di una casa che non le appartiene.
“Senza
aver mai davvero scelto di diventare timida e schiva, aveva trascorso
tanto tempo sola, senza nessuno da amare, che le riusciva difficile
parlare con qualcuno, anche del più e del meno, senza impaccio e una
imbarazzante incapacità di trovare le parole” [L'incubo di Hill
House, Shirley Jackson, trad. Monica Pareschi, Adelphi, 2016 p. 12]
Il
parallelo tra Eleanor e Hill House è già tracciato. Sole entrambe,
la villa e la donna, che ha trentadue anni ma ne dimostra quindici
per carattere, tra le due si crea un legame che non attecchisce
subito, ma si sviluppa nel corso di una settimana che sembra durare
mesi.
Non a
caso la Jackson ci descrive il lungo viaggio di Nell da casa alla
villa, i piccoli impacci di una donna che non ha mai avuto davvero la
libertà, quella libertà che si è invece presa la sorella,
soffocandola sotto il peso della madre invalida per costruirsi la
propria vita in autonomia.
Nella
villa, Eleanor ha modo di sviluppare se stessa. Sola, ha finalmente
la possibilità di affrontare gli altri. Di costruirsi, come la donna
che vorrebbe essere.
Nella villa Eleanor incontra Theodora. Tanto
Nell è impacciata, tesa e come rattrappita quanto Theo è sfacciata,
libera e impudente. Tra
le due, così diverse, si crea un'amicizia che Eleanor, non abituata
ai rapporti con gli altri, non riesce a gestire; un rapporto dentro
il quale rovina,
innamorandosi di Theo prima, odiandola poi perché non ne capisce i
comportamenti, perché non ha l'esclusiva del suo affetto e delle sue
attenzioni.
Vissuta
in una solitudine claustrale, priva di svaghi, di ore da dedicare a
se stessa, Eleanor ha dimenticato completamente com'è essere felici;
si rifugia così nell'introspezione, nell'analisi minuziosa delle proprie
azioni e parole; nell'autopsia dei gesti, delle esclamazioni e delle
allusioni altrui.
Come
Hill House sembra riflettere incessantemente su se stessa, così
accade a Eleanor che finisce per isolarsi dal gruppo, pur volendo
disperatamente farne parte.
Gli
elementi della follia di Nell sono disseminati dalla Jackson con cura
per tutto il romanzo. Quando, ad esempio, il professor Montague parla
della villa ai suoi “assistenti”, e nomina la morte della vecchia
proprietaria provocata, secondo alcuni, dalla negligenza della sua
dama di compagnia, Eleanor, che ha vissuto un'esperienza simile con
sua madre, si trova a immedesimarsi suo malgrado con la donna. È
un'immedesimazione involontaria ma totale, tanto che per tutta la
storia proverà una crescente repulsione/attrazione
per la torre della biblioteca, dove la povera dama si suicidò.
Come
Eleanor, anche Hill House soffre un proprio squilibrio.
È uno squilibrio architettonico, voluto dal suo stesso progettista e
proprietario: Hugh Crain.
Crain
fa in modo che gli angoli di Hill House non siano mai del tutto
dritti; le
pareti curvano impercettibilmente, così le scale e i pavimenti. La
casa ha una planimetria a chiocciola e per muoversi da una stanza
all'altra è necessario conoscerne la mappa,
ma le inclinazioni della struttura provocano negli abitanti un
disorientamento tale che spesso, pur conoscendo l'esatta ubicazione
delle stanze, è impossibile raggiungerle.
Quello
squilibrio è qualcosa che Crain porta dall'interno all'esterno,
dalla sua mente alla casa: una mente disturbata, come dimostra il
diario che Luke recupera dalla biblioteca, e nel quale l'uomo lascia
alla figlia una serie di precetti di buona condotta vergati con il
sangue.
In
tutto questo le apparizioni, i tratti “soprannaturali” della
casa, che pure ci sono, assumono un'importanza del tutto peculiare.
Ciò che accade a Hill House, resa folle dalla solitudine e
dall'isolamento, potrebbero essere emanazioni del rancore e del
dolore di Eleanor stessa che la casa prima suscita e poi amplifica.
Le risate che sbocciano nel cuore della notte, i colpi ripetuti
contro le porte, l'impressione che la casa stia per cedere sotto un
peso che nessuno conosce, che nessuno comprende, e che è il peso
della solitudine. Di
una tristezza tanto profonda e tanto piena che schiaccia e
annichilisce chiunque abbia la sfortuna di rimanervi intrappolato.
“Era
una casa disumana, non certo concepita per essere abitata, un luogo
non adatto agli uomini, né all'amore, né alla speranza.”
[L'incubo di Hill House, Shirley Jackson, trad. Monica Pareschi,
Adelphi, 2016 p. 38]
Bonus
track
Da The Haunting of Hill House sono stati tratti due film:
Nel 1963,
pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo, viene proiettato per la
prima volta Gli invasati, per la regia di Robert Wise (La
Iena, West Side Story). Sebbene con alcune differenze, il film di
Wise si può considerare una buona trasposizione cinematografica del
romanzo della Jackson.
Nel 1999
Jan de Bont (Twister, Tomb Raider – La culla della vita) si accolla
invece la regia di Haunting – Presenze. Nonostante
un cast d'eccezione il film, che all'inizio prevedeva la presenza di
Stephen King alla sceneggiatura e di Spielberg alla regia, ha poco o
nulla da spartire con l'opera originale, rispetto alla quale prende
una deriva decisamente più soprannaturale.
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Devo assolutamente recuperarlo!
RispondiEliminaYep. Qua va recuperata tutta la Jackson ;)
EliminaSplendida recensione. Avrei tanto voluto recensirlo anche io, ma non sono riuscita a trovare le parole.
RispondiEliminaIl parallelo tra Nell e la casa è azzeccatissimo, e non mi era venuto in mente mentre leggevo.
Grazie Katerina, neanche io a prima lettura avevo fatto caso a come entrambe si assomigliassero. Poi, mentre preparavo la recensione: l'illuminazione XD
EliminaSono curiosa di leggere anche la tua recensione però :3
Fino a non molto tempo fa ero convinto che il mio primo e unico libro della Jackson fosse "Abbiamo sempre vissuto al castello"... poi, frugando tra le mie vecchie ciarabattole, infognate a casa di mia mamma, ho riesumato quella vecchia edizione Urania Mondadori intitolata appunto "La casa degli invasati", che avevo letto a vent'anni e poi dimenticato.
RispondiEliminaSe solo me ne fossi accorto prima! Mi sarei risparmiato l'acquisto di questa nuova edizione Adelphi.
A me è successo con "La fabbrica delle vespe". Ho preso la nuova edizione meridiano/zero, senza sapere che quel romanzo (stessa traduzione) l'avevo già. Solo con un altro titolo -_-
EliminaLa tua recensione è straordinariamente interessante *_* Il romanzo mi è stato consigliato più volte, è un altro dei titoli "da leggere" XD
RispondiEliminaTi dirò che la Nell già mi sta particolarmente simpatica :O Empatia preventiva, credo! :D
Brava brava! *_*
Leggilo e fammi sapere che ne pensi.
EliminaLa Jackson è stata una bella scoperta. Ma non so se l'empatia con Nell reggerà fino alla fine XD